Welfare contrattuale, Sos Cgil: «Deve essere integrativo e non sostitutivo»

Solo 7mila contratti, poco più di un quarto dei 26mila firmati a livello nazionale che prevedono interventi di welfare integrativo, hanno un contenuto socio-sanitario. È quanto ha rivelato Franco Martini, responsabile dell’area contrattazione della segreteria nazionale Cgil, nel corso di un seminario tenutosi questa mattina nella sede della Camera del lavoro di Udine. «La Cgil – ha detto Martini – crede che il welfare contrattuale possa essere uno strumento per migliorare la tutela e il potere d’acquisto dei lavoratori. A patto però che si tratti di welfare vero e integrativo rispetto alla copertura del servizio sanitario pubblico». No quindi «ai benefit tipo «carrello della spesa, dei quali non si capisce quale sia l’utilità  sociale», ha aggiunto Martini, e attenzione alla natura degli interventi di carattere socio-sanitario, «perché se sono sostitutivi rispetto all’offerta pubblica – ha spiegato il segretario confederale – è evidente che l’effetto delle defiscalizzazione è quello di spostare risorse dalla sanità  pubblica a quella privata». A preoccupare la Cgil, inoltre, la decontribuzione delle quote di salario destinate al welfare, perché rappresentano un ulteriore fattore di compressione delle future pensioni.
I numeri giustificano la necessità  di una diversa gestione di questa risorsa contrattuale. Non soltanto per la schiacciante maggioranza di accordi caratterizzati soltanto da benefit e gratificazioni con qualificabili come welfare, oltre il 70% degli accordi firmati, ma anche in considerazione della platea ancora molto bassa di lavoratori che accedono alla contrattazione di secondo livello: «Se è vero come è vero che solo il 20% delle imprese di questo Paese – ha detto ancora Martini – ha un contratto di secondo livello, questo significa che una larga maggioranza dei lavoratori italiani rischia di restare fuori dal welfare contrattuale. Un motivo in più perché questo non diventi un intervento sostitutivo, ma soltanto integrativo, della sanità  pubblica, che oltretutto è rivolta anche a chi non ha un lavoro, come i disoccupati, i pensionati, le casalinghe».
La Cgil, da parte sua, concentrerà  gli sforzi per migliorare i contenuti alla base degli accordi, sia per potenziarne i contenuti sociali sia per evitare effetti negativi sulla sanità  pubblica. Indispensabile inoltre, per Martini, ridurre il numero dei fondi sanitari integrativi – «perché 300 sono troppi« – e parallelamente incrementare la quota di spesa sanitaria privata, attualmente solo 5 miliardi sui 36 complessivi, che passa attraverso il loro intervento. «Ma crediamo anche – ha concluso Martini – che una parte di questi 5 miliardi possa anche tornare al servizio sanitario pubblico, se adeguate politiche sul personale sapranno ridurre la piaga delle liste di attesa e frenare così la crescita del ricorso alle strutture private, che non rappresenta, né in Italia né all’estero, un fattore di contenimento della spesa sanitaria complessiva».